Il signor S. era stato condotto in ospedale perché improvvisamente notava una strana sensazione che gli saliva su dal piede e “marciava” in una manciata di secondi, verso l’inguine ed il tronco, poi tutto diventava sfumato e confuso.
Si ritrovava col piede intorpidito e cedevole. Quell’ultima volta gli era rimasto anche un gran mal di testa.
I medici del pronto soccorso lo portarono subito in radiologia per una prima valutazione TC. Nella confusione di quei momenti il responso suonava strano: una “massa” dai contorni regolari, con edema perilesionale, forse un meningioma della convessità.
Gli dissero che veniva trasferito in Neurochirurgia. Cominciarono a somministrargli del cortisone, gli praticarono un elettroencefalogramma, cominciò la terapia antiepilettica e dopo qualche giorno praticò una risonanza magnetica con contrasto. Gli chiesero per questo se fosse portatore di pace-maker, se avesse protesi metalliche o comunque materiale magnetico impiantato nel corso di eventuali interventi precedenti o conseguente a traumi. Non capiva perché, solo voleva sapere di sicuro che avesse e quando sarebbe stato eventualmente operato e di che cosa.
Nel colloquio coi medici, e col suo curante in particolare, erano emerse varie prospettive, lontane, ma che ora, a colloquio col chirurgo davanti al diafanoscopio per vedere le lastre, si avvicinavano vorticosamente strigendogli la gola con un “nodo”. Ricacciava dentro di se i dubbi più assurdi: sarebbe sopravvissuto, che sarebbe stato della moglie e dei figli, che senso aveva più la vita ? Poi incontrò gli occhi del medico e vide davanti a se gli ostacoli con maggiore chiarezza.
Di che si tratta, chiese. Di un meningioma della convessità, gli fu risposto. E’ necessario levarlo, esercita un effetto massa irritando il cervello che in risposta si imbibisce di acqua (edema) e sviluppa un’attività elettrica anomala.
Le sue erano stata crisi Jaksoniane, ossia le aree corticali (cerebrali) in cui è rappresentato il piede si eccitavano in modo critico e questa eccitazione si propagava poi come una marea.
Gli era chiaro ora che bisognasse fare qualcosa, levare il male, ma quali probabilità che l’intervento riuscisse, quali i pericoli, quali i benefici, c’erano alternative terapeutiche ? Tra le parole secche ed asciutte del medico si scioglievano anche le sue emozioni per valutare “i fatti”. Il meningioma era extracerebrale, non si “mischiava” col cervello ma cresceva dalla meninge che ne ricopriva la volta. Poteva essere “dissecato” con cautela senza alterare il cervello sano, con pericolo relativamente contenuto. Dei pericoli alcuni erano generici (sanguinamenti, infezioni, deformità craniche), uno specifico e più minaccioso: danno alle strutture cerebrali. Gli vennero ancora una volta incontro le parole asciutte del medico, con un numero che in termini di rischio percentuale gli parve troppo piccolo in confronto alle sue paure. Il vantaggio dell’intervento sarebbe stato quello di “levare” una massa suscettibile di crescita e di altri danni al cervello. Il normale funzionamento cerebrale non sarebbe più stato disturbato con anomalie elettriche e reazioni edemigene. Un qualcosa di cui tra le tante parole di familiari ed amici aveva sentito parlare, la radiochirurgia, era rimasta subito al palo, ossia nel caso di meningioma della convessità non è quasi mai proponibile.
E venne il giorno dell’intervento. Nella sua mente rimase impresso il momento in cui tirava tra le lenzuola della barella quel santino trovato sul comodino, lasciato da chissà chi, e che in altri momenti della sua vita, avrebbe guardato quasi con disprezzo. Era stato sempre una persona concreta e poche volte nella sua vita aveva rivolto gli occhi al cielo.
Ma fu la prima cosa che fece quando si svegliò. Era restato abbarbicato alla vita solo tramite gli strani cavi e tubi che si rivedeva intorno, per chi sa quanto tempo. Capiva che mani crude ma amorevoli si erano posate sul suo corpo ed avevano “violato” le barriere anatomiche del suo cervello. Sapeva che c’era una “colla” di umanità che lo aveva sorretto e lo avrebbe sorretto, ma è solo verso il cielo che vedeva le tracce del suo destino, e solo in quella direzione che trovava una collocazione certa nel grande magma vitale che l’avvolgeva.
Poi scorse lo sguardo della figlia, del figlio, della moglie, che in passato aveva avuto problemi psichiatrici. Ma lui ora era sereno, guardava ala vita con la stessa fiducia di sempre, era rinato ad un nuovo giorno ed anche questa volta ce l’aveva fatta. Sentiva le voci dei medici e l’intercalare del suo chirurgo con l’infermiera: “prepara il carrello che tra poco gli medichiamo la ferita; levagli il catetere urinario, fallo sedere”. Frammenti che si depositavano nella sua mente ed alimentavano i discorsi coi suoi familiari. Poi venne il giorno che con un cerotto sulla ferita (ma era davvero stata così piccola?) potette andare al bar a prendere un caffè. Il sole di quell’arido luglio gli ricordò dei gerani in giardino, ma la moglie gli aveva letto nel pensiero: “li ho annaffiati gli disse.”
A sette giorni dall’intervento era di nuovo a casa, l’antiepilettico che gli era stato prescritto per via delle anomalie elettroencefalografiche focali presentate prima dell’intervento e tuttora persistenti benchè ridotte, gli portava un pò di sonnolenza. Quell’anno non potè andare al mare, ma passato il caldo torrido di agosto la sonnolenza legata al farmaco che assumeca si era di molto atttenuata.
Col levantino delle colline romane dove viveva erano passati altri agosti. A quattro anni l’elettroencefalogramma si era normalizzato ed aveva sospeso l’antiepilettico. La sua foto, come diceva scherzando dell’ultima risonanza di controllo, mostrava “il vuoto” della malattia ormai scomparsa. La sua faccia piena e sorridente cercava invece spazio tra gli irrequieti nipotini sullo sfondo del suo giardino nell’ultima istantanea di questo caldo settembre.